Devotio

 In hac trepidatione Decius consul M. Valerium magna uoce inclamat. “Deorum” inquit “ope, M. Valeri, opus est; agedum, pontifex publicus populi Romani, praei uerba quibus me pro legionibus devoveam.”

In questo momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò

Abbiamo bisogno dell’aiuto degli dèi, Marco Valerio Avanti, pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni

Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et velato capite, manu subter togam ad mentum exserta, super telum subiectum pedibus stantem sic dicere: “Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupavi, ita pro re publica <populi Romani> Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum deis Manibus Tellurique deuoueo”.


Il pontefice gli ordinò di indossare la toga pretesta, di coprirsi il capo e, toccandosi il mento con una mano fatta uscire da sotto la toga, di pronunciare le seguenti parole, ritto, con i piedi su un giavellotto: Giano, Giove, padre Marte, Qvirino, Bellona, Lari, dèi Novensili, dèi Indigeti, dèi nelle cui mani ci troviamo noi e i nostri nemici, dèi Mani, io vi invoco, vi imploro e vi chiedo umilmente la grazia: concedete benigni ai Romani la vittoria e la forza necessaria e gettate paura, terrore e morte tra i nemici del popolo romano e dei Qviriti

Tito Livio, opera Ab urbe condita parte Libro 39; 31 – 35

«”Quid ultra moror familiare fatum? datum hoc nostro generi est ut luendis periculis publicis piacula simus. Iam ego mecum hostium legiones mactandas Telluri ac Dis Manibus dabo.” haec locutus M. Livium pontificem, quem descendens in aciem digredi vetuerat ab se, praeire iussit verba quibus se legionesque hostium pro exercitu populi Romani Quiritium devoveret. Devotus inde eadem precatione eodemque habitu quo pater P. Decius ad Veserim bello Latino se iusserat devoveri, cum secundum sollemnes precationes adiecisset prae se agere sese formidinem ac fugam caedemque ac cruorem, caelestium inferorum iras, contacturum funebribus diris signa tela arma hostium, locumque eundem suae pestis ac Gallorum ac Samnitium fore,—haec exsecratus in se hostesque, qua confertissimam cernebat Gallorum aciem, concitat equum inferensque se ipse infestis telis est interfectus.»

«Perché ritardo il destino della mia famiglia? È questa la sorte data alla nostra stirpe, di esser vittime espiatorie nei pericoli dello Stato. Ora offrirò con me le legioni nemiche in sacrificio alla Terra e agli dei Mani!”. Pronunciate queste parole, ordinò al pontefice Marco Livio, al quale aveva ingiunto di non allontanarsi da lui mentre scendevano in campo, di recitargli la formula con cui offrire sé stesso e le legioni nemiche per l’esercito romano dei Quiriti. Si consacrò in voto recitando la stessa preghiera, indossando lo stesso abbigliamento con cui presso il fiume Vesseri si era consacrato il padre Publio Decio durante la guerra contro i Latini, e avendo aggiunto alla formula di rito la propria intenzione di gettare di fronte a sé la paura, la fuga, il massacro, il sangue, il risentimento degli dei celesti e di quelli infernali, e quella di funestare con imprecazioni di morte le insegne, le armi e le difese dei nemici, e aggiungendo ancora che lo stesso luogo avrebbe unito la sua rovina e quella di Galli e Sanniti, lanciate dunque tutte queste maledizioni sulla propria persona e sui nemici, spronò il cavallo là dove vedeva che le schiere dei Galli erano più compatte, e trovò la morte offrendo il proprio corpo alle frecce nemiche.»

Lucus numen inest

lucus Aventino suberat niger ilicis umbra,
quo posses viso dicere ‘numen inest’.

Ai piedi dell’Aventino c’era un bosco buio, fitto di lecci; solo a vederlo avresti detto:
“Qui dimorano delle divinità”
 Ov. Fasti III 295-296

Il Pugile a riposo e la Vittoria

“L’esposizione congiunta di questi due straordinari bronzi permetterà di dar vita a un dialogo ‘impossibile’ tra il mondo ellenistico e il mondo romano, offrendoci una preziosa narrazione sul polimorfo simbolismo della Vittoria, da Nike sportiva ad emblema della pax latina, qui rappresentate da due capolavori dell’arte universale. Il Pugilatore in riposo, incarna alcuni dei valori nei quali il mondo romano affondò le proprie radici culturali”, commenta la Presidente Fondazione Brescia Musei Francesca Bazoli. “Il Pugile e la Vittoria, visitabile sino al 29 Ottobre 2023 nel Parco Archeologico di Brescia Romana con uno spettacolare allestimento curato dall’architetto Juan Navarro Baldeweg, sarà l’occasione per ridurre la distanza cronologica, che ha separato le due opere in antico, traendo forza dalla relazione che intercorre tra esse. Nello spazio dell’aula del tempio romano di Brescia, con contrappunti armonici, si dipanerà una narrazione concettuale e poetica sui valori assoluti che queste sculture rappresentano e che mantengono ancora intatti nel nostro tempo”.

Giacomo Boni, geniale archeologo simbolista , Flamen Floralis, ultimo custode degli arcana Urbis

«Uno degli uomini più singolari e affascinanti di questo secolo»
Ugo Ojetti  
scrittore, critico d’arte, giornalista e aforista italiano.

Giacomo Boni. Scavi, misteri e utopie della Terza Roma
Sandro Consolato edito da Alfaforte.

Attraverso una denso saggio, scorrevole come un romanzo storico, come sempre accurato e dettagliato con un poderoso apparato di note , l’autore ci conduce sulle tracce di un personaggio d’eccellenza della nostra storia.
Giacomo Boni ha segnato  la storia dell’archeologia romana con notevoli scoperte nel Foro e sul Palatino che lo resero celebre in tutto il mondo, nonostante  fosse considerato un outsider dal mondo accademico,fu anche letterato e botanico (riorganizzò gli Orti Farnesiani, sul Palatino, dove oggi è sepolto) figura originalissima e poliedrica, nazionalista mistico e nostalgico del paganesimo, inseguì l’utopia di una Terza Roma che ridesse un primato all’Italia nel mondo.
 Sapiente erudito «completo»,  sensitivo degli scavi , geniale archeologo vate e architetto che rinnovò completamente la metodologia di scavo e studio dei siti stabilendo la necessità di tutelare e valorizzare i monumenti archeologici, concepì l’archeologia come 
«una disciplina che può condurre alla scoperta e alla conoscenza delle leggi che regolano la vita umana nel suo complesso».

”Esplorai il centro di irradiazione della civiltà nostra per ricercare la vita nelle stratificazioni più profonde. Nelle antichissime leggi tradizionali vidi luce di vita molto maggiore che nei modernissimi ordinamenti. ”

Era un suo principio rispettare l’integrità dei complessi riportati in luce, considerando importanti tutti i materiali: manufatti, resti antropologici, botanici, faunistici, fu pioniere di operazioni fotografia archeologica dall’alto. Boni implementò l’uso della fotografia aerea su mongolfiera che gli permise di portare alla luce siti straordinari, come il Tempio di Vesta e il complesso della fonte di Giuturna. Introdusse nella metodologia archeologica lo scavo stratigrafico: una rivoluzione per la professione, testimoniata da molti dettagliati disegni esposti nella mostra Giacomo Boni. L’Alba della modernità.

Alle sue ricerche nel Foro Romano si devono la scoperta del Lapis niger, della Regia, del Lacus Curtius, dei cunicoli cesariani nel sottosuolo della piazza, della necropoli arcaica presso il tempio di Antonino e Faustina e della chiesa di Santa Maria Antiqua. Sul Palatino portò alla luce una cisterna arcaica a thòlos, che erroneamente identificò con il Mundus Cereris, i ricchi ambienti della “Casa dei Grifi” e della cosiddetta “Aula isiaca” al di sotto del palazzo imperiale di età flavia, l’Aedes Vestae, il Sepolcreto Arcaico della via Sacra, confutò le teorie, che negavano ogni valore alla tradizione storica sulle origini di Roma.

Foro Romano, sepolcreto presso il Tempio di Antonino e Faustina durante gli scavi Boni (archivio fotografico PA- Colosseo).

Oltre il lato biografico accurato l’autore ritiene rilevante al fine di comprendere appieno la personalità del Boni e la complessità delle sue idee:
‘l’attrazione per la spiritualità dell’India e dell’estremo Oriente e il nesso tra questa attrazione e la su aspirazione ad attingere ” l ‘Originario”,in termini di civiltà come di razza, la presenza, in lui di una forte dimensione mistica che mette in relazione con coeve pulsioni verso un ritorno al paganesimo…”

Tanaka Mazutaro nel Foro Romano.
Il tiro è effettuato nella Basilica di Massenzio.
Giacomo Boni ospitò nella sua casa Tanaka Mazutaro, proveniente da Tokyo, che gli fu presentato dallo scultore suo amico Moriyoshi Naganuma 

Mentre insegnavo all’ospite i primi rudimenti di alcune lingue europee, egli mi decifrava i cinquemila ideogrammi del Tao-te-king di Lao-tze, pensatore più antico e più universale di Socrate. Tale puro lavacro intellettuale mi schiuse gli occhi alla Via suprema delle umane cogitazioni e, scendendo, nel 1898, nella valle del Foro, per cercarvi la Via Sacra ed il Sepolcreto Romuleo ed i sacrari di stato ed altri monumenti delle origini nostre, li seppi raggiungere evitando per quanto era possibile di scomporre le pieghe misteriose e permalose al grave involucro patentato della scienza accademica“.
Eva Tea

Sandro Consolato, nato a Bagnara Calabra nel 1959, è laureato in Filosofia e docente di Discipline letterarie e Latino nei licei.Si occupa prevalentemente della presenza del mito di Roma, dell’esoterismo e dell’orientalismo nella storia culturale e politica dell’Italia.In relazione a questi temi ha curato la rivista La Cittadella (2001-2012) e pubblicato i saggi Julius Evola e il buddhismo (1995), Dell’elmo di Scipio. Risorgimento, storia d’Italia e memoria di Roma (2012), Evola e Dante. Ghibellinismo ed esoterismo (2014), Leggere la Tradizione (2018), Quindici-Diciotto. Tra storia e metastoria (2018), Urbs Aeterna. Misteri, figure, rinascite del paganesimo (2019), Le tre soluzioni di Julius Evola (2020)A ovest con René Guénon (2023).

Angerona dea silente dalle molte interpretazioni

Divinità arciaca romana, ne fecero menzione molti autori con diverse interpretazioni

Angeronalia ab Angerona, cui sacrificium fit in curia Acculeia et cuius feriae publicae is dies


la festa degli Angeronalia prende il nome da Angerona, il cui sacrificio è compiuto nella curia Acculeia e di cui quel giorno è la festa ufficiale
Varrone, nel sesto libro del De lingua Latina

 Marco Verrio Flacco nei “Fasti Prenestini”:
– Festa pubblica. Divalia. Festa della Dea Angerona, che prese nome dal disagio della fastidiosa angina poichè ella un tempo rivelò un rimedio per essa.
Hanno posto la statua di lei con la bocca imbavagliata sull’altare di Volupia, per mettere in guardia la gente a non proferire il nome segreto della città. –


Il nome deriverebbe ab angeronando, ossia dal rivolgersi del sole; Angerona sarebbe stata quindi, una divinità dell’anno nuovo.


La sua festa infatti cadeva appunto nel giorno del solstizio d’inverno.
Festo (Epitome, p. 17) e Macrobio (Saturn., I, 10, 9)



“Nel XII giorno (delle calende di gennaio) vi è la festa della diva Angerona, a cui i pontefici fanno un sacrificio nel sacello di Volupia.

Per altri il nome deriverebbe dalla malattia detta angina; la divinità guariva i colpiti da quel morbo, che a lei come supplici si rivolgevano.


La sua immagine era rappresentata con la bocca chiusa, e si venerava sull’ara di Volupia.
In un testo frammentario dei celebri Fasti Prenestini, compilati dal grammatico Verrio Flacco, ai tempi dell’imperatore Augusto,
Angerona…. ore obligato in ara Volupiae.

Quest’ara si trovava sul lato occidentale del colle Palatino, presso la porta del recinto romuleo che guardava verso il Tevere. Ivi, dinnanzi al simulacro della dea che teneva chiusa la bocca con l’indice della mano destra, nel giorno della sua festa, 21 dicembre, i pontefici immolavano una vittima.


Sia Plinio che Solino, in un più ampio discorso che aveva come tema centrale l’evocatio, scelgono il simulacrum della Dea come simbolo del valore che il silenzio possedeva nella cultura romana, strumento privilegiato per proteggere Roma contro i nemici obligato atque signato, fu interpretata da alcuni autori antichi come dea che intimava il silenzio.

Entrambi inseriscono l’exemplum della raffigurazione della dea trattando lo stesso argomento: la città, per non incorrere nel pericolo di evocatio, rito pubblico romano che consisteva nell’evocare la divinità protettrice della città che si voleva conquistare promettendole asilo a Roma, ci raccontano i due autori, possedeva un secondo nome, tenuto segreto e protetto da un religioso silenzio;


 Non alienum videtur inserere hoc loco exemplum religionis antiquae ob hoc maxime silentium institutae. Namque diva Angerona, cui sacrificatur a. d. XII kal. Ian., ore obligato obsignatoque simulacrum habet,


«non mi sembra fuori luogo inserire a questo punto l’esempio di un antico rito religioso istituito proprio per esortare a tale silenzio: la dea Angerona infatti, la cui festa ricorre il 21 dicembre, ha una statua con la bocca chiusa e sigillata

O forse la dea simboleggia la difficoltà del passaggio del solstizio d’inverno, quando il sole, la coscienza, sembra sparire nelle tenebre, in senso iniziatico, il solstizio d’inverno equivale alla Piccola Morte, Morte iniziatica, quando il neofita perdeva le difese della mente esterna morendo al mondo, e prova un senso molto forte di angoscia e di smarrimento.

Naturam furca expellas tamen usque recurret

naturam expelles furca potrai scacciare la natura con la forca tamen usque recurret  tuttavia sempre tornerà

Orazio (Epist. I, 10, 24)

“Per lungo tempo credetti, stoltamente,
che ci fossero statue di Vesta,ma poi appresi che sotto la curva cupola non ci sono affatto statue.
Un fuoco sempre vivo si cela in quel tempio e Vesta non ha nessuna effige, come non ne ha neppure il fuoco.”

Ovidio, “Fasti” VI , 295

esse diu stultus Vestae simulacra putavi,
mox didici curvo nulla subesse tholo.
ignis inexstinctus templo celatur in illo:
effigiem nullam Vesta nec ignis habet

nec tu aliud Vestam quam vivam intellege flammam,
nataque de flamma corpora nulla vide

Concepisci Vesta come nient’altro che la fiamma vivente, e vedrai che nessun corpo nasce dalla fiamma.

Exercitationes ἄσκησις addestramento Seneca De Providentia

Ignis aurum probatmiseria fortes viros

Il fuoco è la prova dell’oro, la sventura quella dell’uomo forte

Quare aliqua incommoda bonis viris accidant,
cum providentia sit…

 

Per quale ragione alcune sventure toccano ai buoni pur essendovi la provvidenza…
 Exercitationes, ἄσκησις ,addestramento o “formazione”  a cui il divino, la Sorte, per gli stoici il logos impersonale, immanente, sottopone  il vir bonus, per sperimentarne, rafforzarne e metterne in mostra il valore.

L’idea delle sventure come banco di prova
della virtù è presente
nell’antica
Stoa, ma  è Seneca  porla al centro di un’intera opera:

‘De Provvidentia”

Si suppone  Seneca instauri il rapporto metaforico tra dio e l’uomo buono (saggio) come tra padre e figlio per allentare le maglie del rigido determinismo e fatalismo stoico, e riservare così  mediante un espediente retorico, un certo margine alla libertà morale dell’uomo, che si sperimenta, si forma, si eleva nel rapporto con il divino, il principio assoluto.
Le avversità, intese come prove, assumono quindi un significato altamente positivo, di iniziazione, poiché non solo impediscono all’uomo virtuoso di illanguidire 4, II 
Marcet sine adversario virtus: tunc apparet quanta sit quantumque polleat, cum quid possit patientia ostendit. Scias licet idem viris bonis esse faciendum, ut dura ac difficilia non reformident nec de fato querantur, quidquid accidit boni consulant, in bonum vertant; non quid sed quemadmodum feras interest
Il valore si infiacchisce se non ha avversari: allora appare quanto è grande e che forza ha, quando mostra la sua capacità di sopportazione. Sappi dunque che i buoni devono comportarsi nello stesso modo, non temere le difficoltà e le avversità né lamentarsi del fato, qualsiasi cosa accada la ritengano un bene e la trasformino in un bene; ciò che è importante non è ciò che tu sopporti ma in che modo lo sopporti.
Sono vere e proprie “occasioni di virtù” 6, IV. con uno strano  esito paradossale in cui il proprio valore è commisurato alle prove da affrontare.
Avversità inevitabili talvolta, dure, aspre ma in fin dei conti, onde del mare della vita tramite le quali ci si fortifica, talvolta ci si vivifica , sentendone e sperimentandone la drammaticità come intensità di energia vitale, di presenza alla vita, che ci costringe a leggere messaggi e simboli provenienti dal profondo della nostra esistenza. 

Nolite, obsecro vos, expavescere ista quae di inmortales velut stimulos admovent animis: calamitas virtutis occasio est.
Illos merito quis dixerit miseros qui nimia felicitate torpescunt, quos velut in mari lento tranquillitas iners detinet: quidquid illis inciderit, novum veniet.
Vi scongiuro, non spaventatevi di queste cose che gli dèi immortali infondono negli animi come degli stimoli: una disgrazia è un’occasione di virtù.
A ragione si possono definire miseri coloro che sono infiacchiti per l’eccessiva fortuna, che una inerte bonaccia opprime come su un mare piatto: ogni cosa che ad essi accadrà, sopraggiungerà come una novità.

 Il ricorso frequente a immagini militari, che rimandano alla metafora vita/milizia, sottolinea l’intento eroico marziale. l’influsso della visione  tradizionale romana,
MOS MAIORUM, che traspare dall’esempio
dei soldati.

 

Paragrafo 96, Libro 16 di Seneca Epistulae morales ad Lucilium

 

wp-1589464843348188959699.jpg

VIVERE MILITARE EST

 

Atqui vivere, Lucili, militare est.

Itaque hi qui iactantur et per operosa atque ardua sursum ac deorsum eunt et expeditiones periculosissimas obeunt fortes viri sunt primoresque castrorum; isti quos putida quies aliis laborantibus molliter habet turturillae sunt, tuti contumeliae causa.
Vale.

Ma, caro Lucilio, vivere è fare il soldato.

Perciò coloro che sono sbattuti qua e là, e costretti a percorrere per dritto e per traverso strade faticose e difficili e affrontano spedizioni piene di rischi, sono uomini valorosi, i primi tra i soldati; quanti, invece, si lasciano languidamente andare a un ozio nauseante, mentre gli altri si affannano, sono delle colombelle, e si garantiscono la sicurezza con il disonore.

Stammi bene.

Il discorso morale svolto da Seneca si caratterizza nel senso di un’etica agonistica ed eroica, la quale in fatti ha come protagonista il vir bonus, il vir fortis che 

esprime in misura ancora più marcata la forza (morale) del
vir. II,3  e I,4 De Providentia
Athletas videmus, quibus virium cura est, cum fortissimis quibusque confligere et exigere ab iis per quos certamini praeparantur ut totis contra ipsos viribus utantur; caedi se vexarique patiuntur et, si non inveniunt singulos pares, pluribus simul obiciuntur.
lottatore di pancrazio louvere
Vediamo che gli atleti, che hanno cura del loro fisico, lottano con tutti i più forti ed esigono da coloro dai quali sono allenati per la gara, che questi impieghino tutte le loro forze contro di essi; tollerano di essere battuti e maltrattati e, se non trovano uno alla loro altezza, si battono con più avversari contemporaneamente.
wp-15840125684361020343881.jpg
4. Ignominiam iudicat gladiator cum inferiore componi et scit eum sine gloria vinci  qui sine periculo vincitur.
Idem facit fortuna: fortissimos sibi pares quaerit, quosdam fastidio transit. Contumacissimum quemque et rectissimum adgreditur, adversus quem vim suam intendat: ignem experitur in Mucio, paupertatem in Fabricio, exilium in Rutilio, tormenta in Regulo, venenum in Socrate, mortem in Catone. Magnum exemplum nisi mala fortuna non invenit
Il gladiatore giudica vergognoso esser messo a confronto con uno a lui inferiore e sa che è sconfitto senza gloria chi è vinto senza pericolo.
Lo stesso fa la fortuna: va in cerca dei più forti, che siano al suo livello, alcuni li trascura con disprezzo.

Assale i più fieri e retti, contro i quali possa spiegare la sua forza: prova il fuoco in Muzio , la povertà in Fabrizio6 , l’esilio in Rutilio , le torture in Regolo , il veleno in Socrate, la morte in Catone. Solo la cattiva sorte trova un grande esempio.

Anche se cade, combatte ancora in ginocchio etiam si cecidit de genu pugnat

Il passo ulteriore consiste nell’affermare la volontaria ricerca, da parte del
vir bonus, di tali opportunità che gli consentono di far emergere la sua
virtus analogamente i soldati migliori sono avidi di occasioni in cui dimostrare quanto valgono 4, IV
Gaudent, inquam, magni viri aliquando rebus adversis, non aliter quam fortes milites bello; Triumphum ego murmillonem sub Ti. Caesare de raritate munerum audivi querentem: “Quam bella” inquit “aetas perit!” Avida est periculi virtus et quo tendat, non quid passura sit cogitat, quoniam etiam quod passura est gloriae pars est. Militares viri gloriantur vulneribus, laeti fluentem meliori casu sanguinem ostentant: idem licet fecerint qui integri revertuntur ex acie, magis spectatur qui saucius redit.
Talvolta, ti dico, gli uomini forti gioiscono delle avversità non altrimenti di come i soldati valorosi gioiscono della guerra; ho sentito il gladiatore Trionfo, sotto Tiberio Cesare, lamentarsi della poca frequenza dei giochi: “Che bel periodo” disse “è passato!” La virtù è avida di pericolo e pensa dove tendere, non cosa soffrirà, giacché anche ciò che soffrirà è parte della gloria.
I soldati fanno vanto delle loro ferite, fieri ostentano il sangue che scorre più felicemente: anche se quelli che tornano illesi dal campo di battaglia hanno compiuto le stesse imprese, ma viene guardato con maggior ammirazione quello che torna ferito.
Che il saggio sopporti le avversità volontariamente (perché riconosce nel corso delle cose il volere del fato e vi aderisce senza tentennamenti), è senza dubbio concetto stoico; nel  desiderare gli incommoda, preferire le difficoltà alla quiete per esaltare il proprio valore, appare un influsso del cinismo, forse  l’amico cinico Demetrio.
Inter multa magnifica Demetri nostri et haec vox est, a qua recens sum; sonat adhuc et vibrat in auribus meis:
“Nihil” inquit “mihi videtur infelicius eo cui nihil umquam
evenit adversi.”
Non licuit enim illi se experiri. Ut ex voto illi fluxerint omnia, ut ante votum, male tamen de illo di iudicaverunt: indignus visus est a quo vinceretur aliquando fortuna, quae ignavissimum quemque refugit, quasi dicat: “Quid ergo? Istum mihi adversarium adsumam? Statim arma summittet; non opus est in illum tota potentia mea, levi comminatione pelletur, non potest sustinere vultum meum.
Alius circumspiciatur cum quo conferre possimus manum: pudet congredi cum homine vinci parato.”
Tra i molti magnifici detti del nostro Demetrio , vi è anche questo, che ho da poco udito e che mi risuona ancora presente all’orecchio:
“Nulla” disse “mi sembra più infelice di colui al quale non capita mai nessuna avversità.”
Infatti a costui non è stato possibile provare le proprie capacità. Anche se tutto è filato liscio secondo i suoi desideri, o prima ancora di essi, tuttavia gli dèi non l’hanno giudicato positivamente: è sembrato indegno di vincere ogni tanto la fortuna, che rifugge da tutti gli imbelli, come se dicesse: “E che?
Dovrei prendermi costui come avversario? Deporrà subito le armi; non è necessaria contro di lui tutta la mia potenza, sarà allontanato da una blanda minaccia, non è in grado di sostenere il mio aspetto. Si trovi un altro, col quale io possa lottare: mi vergogno di scontrarmi con un uomo rassegnato alla sconfitta.
Dal punto di vista strettamente stoico, è indifferente che la virtù sia impegnata in prove difficili o si trovi in condizioni tranquille, che sia a tutti nota o resti oscura.
Seneca nel  De Providentia  insiste molto sulla necessità degli adversa affinché la virtus si manifesti e risplenda: ciò è funzionale al ruolo di examplar per gli altri uomini che Seneca attribuisce al saggio
Il  vero obiettivo di Seneca non sia tanto giustificare l’ordine cosmico
all’ amor fati, all’accettazione volontaria della necessitas, quanto dimostrare l’autosufficienza e la libertà del saggio, anche nella situazione più difficile.
Epistulae morales ad Lucilium (16, 3-5) 
Quidquid est ex his, Lucili, vel si omnia haec sunt, philosophandum est; sive nos inexorabili lege fata constringunt, sive arbiter deus universi cuncta disposuit, sive casus res humanas sine ordine inpellit et iactat, philosophia nos tueri debet.
Haec adhortabitur ut deo libenter pareamus, ut fortunae contumaciter; haec docebit ut deum sequaris, feras casum
Qualunque sia l’ipotesi valida fra queste, o Lucilio, o anche se fossero valide tutte insieme, si deve osservare la filosofia; sia che i fati ci tengano stretti con una legge inflessibile, sia che un Dio signore dell’universo abbia disposto ogni cosa, sia che il caso spinga e agiti le vicende umane senza ordine, la filosofia deve tutelarci.
Essa ci esorterà a ubbidire a Dio volentieri, alla sorte con fierezza; essa ti insegnerà a seguire Dio, a tollerare il caso.

Philosophia.. non in verbis sed in rebus est Seneca

 

SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1]

Liquere hoc tibi, Lucili, scio,
neminem posse beate vivere, ne tolerabiliter quidem, sine sapientiae studio, et beatam vitam perfectā sapientiā effici, ceterum tolerabilem etiam inchoatā.

Sed hoc quod liquet firmandum et altius
cotidianā meditatione figendum est:
plus operis est in eo ut proposita custodias quam ut honesta proponas.

SENECA SALUTA IL SUO LUCILIO

[1]

So che ti è chiaro questo, o Lucilio,
(e cioè) che nessuno può vivere felicemente,
neppure in modo tollerabile, senza la ricerca della saggezza, e che la vita è resa felice da una saggezza completa, peraltro tollerabile
anche da (una saggezza) incompiuta.

Ma questo che è chiaro è da confermare e da fissare più in profondità con la quotidiana meditazione:
c’è più impegno nel fatto che tu mantenga i propositi che nel fatto di concepire propositi onesti.

Perseverandum est
et assiduo studio robur addendum, donec bona mens sit quod bona voluntas est.

Bisogna perseverare e con impegno assiduo aggiungere robustezza,
finché sia buona mente ciò che è buona intenzione.

[2] Itaque non opus est tibi apud me pluribus verbis aut affirmatione tam longā:
intellego multum te profecisse.

Quae scribis unde veniant scio; non sunt
ficta nec colorata. Dicam tamen quid sentiam: iam de te spem habeo,
nondum fiduciam.
Tu quoque idem facias volo: non est quod tibi cito et facile credas.

Excute te et varie scrutare et observa;
 illud ante omnia vide, utrum in 
philosophiā an in ipsā vitā profeceris.

[2] Perciò davanti a me non c’è bisogno per te di più parole o di un’affermazione così lunga:
capisco che tu hai progredito molto.

Le cose che scrivi so da dove vengono;
non sono inventate né falsate.
Dirò tuttavia che cosa penso:
ho già speranza su te, non ancora fiducia.
Voglio che anche tu faccia lo stesso: non è il caso che tu abbia sicurezza in te stesso subito e facilmente.

Scuotiti, e scruta e osserva sotto vari punti di vista;
prima di tutto vedi questo,
(cioè) se tu hai progredito nella filosofia oppure 

nella stessa vita.

[3]
Non est philosophia populare
artificium nec ostentationi paratum;
non in verbis sed in rebus est.
Nec in hoc adhibetur, ut cum aliquā oblectatione consumatur dies, ut dematur otio
nausia:
animum format et fabricat, vitam disponit, actiones regit, agenda et omittenda demonstrat, sedet ad gubernaculum et per ancipitia fluctuantium derigit cursum.
Sine hāc nemo intrepide potest vivere,
nemo secure; 

innumerabilia accidunt singulis horis quae consilium exigant, quod ab hāc
petendum est.

[3]
La filosofia non è un atteggiamento artefatto esibizionistico né finalizzato
all’ostentazione;
(non è un arte che serve a far mostra di se di fronte alla gente)

sta non nelle parole,
ma nei fatti.

Né si pratica a questo scopo, affinché la giornata trascorra con qualche
piacevolezza, affinché sia tolto il disgusto all’ozio:

plasma e costruisce l’animo, organizza la vita, governa le azioni, indica le cose da fare e le cose da tralasciare, 
siede al timone e dirige la rotta attraverso i pericoli delle situazioni burrascose.
Senza di lei 

nessuno può vivere intrepidamente, 
nessuno (può vivere) con sicurezza. 

Ogni momento accadono innumerevoli fatti che esigono una decisione che a lei è da chiedere.

[4] Dicet aliquis,”Quid mihi prodest philosophia,  si fatum est?
Quid prodest, si deus rector est?

Quid prodest, si casus imperat?

Nam et mutari certa non possunt et nihil
praeparari potest adversus incerta, sed aut consilium meum occupavit deus decrevitque quid facerem, aut consilio meo nihil
fortuna permittit.”

[4] Qualcuno dirà: “Che mi giova la filosofia, se esiste il destino?

Che giova, se un dio è colui che decide? 

Che giova, se comanda il caso?

Infatti sia i fatti prestabiliti non si possono modificare, sia nulla si può predisporre contro le cose incerte, ma o un dio ha prevenuto la mia decisione e ha deciso che cosa io dovessi fare, oppure la sorte nulla concede alla mia decisione.”

[5] Quidquid est ex his, Lucili, vel si omnia haec sunt, philosophandum est; sive nos inexorabili lege fata
constringunt, sive arbiter deus universi cuncta disposuit, sive casus res humanas sine ordine impellit et iactat, philosophia nos tueri debet.
Haec adhortabitur ut deo libenter pareamus, ut fortunae contumaciter; haec docebit ut deum sequaris, feras casum.

[5] Qualsiasi di queste ipotesi sia vera, o Lucilio, addirittura se tutte queste ipotesi sono vere, bisogna praticare la filosofia; sia che con legge inesorabile il destino ci vincoli, sia che un dio, arbitro dell’universo, abbia disposto tutto, sia che il caso spinga e agiti senza ordine le vicende umane, deve proteggerci la filosofia.

Questa ci esorterà ad obbedire di buon grado a dio, ad (obbedire) con fierezza alla sorte; questa ti insegnerà a seguire dio, a sopportare la sorte.

[6] Sed non est nunc in hanc disputationem transeundum, quid sit iuris nostri si providentia in imperio est, aut si fatorum series illigatos trahit, aut si repentina ac subita dominantur: illo nunc revertor, ut te moneam et exhorter ne patiaris impetum
animi tui delabi et refrigescere.
Contine illum et constitue, ut habitus
animi fiat quod est impetus.

[6] Ma non bisogna passare ora a questa discussione, che cosa sia di nostra competenza se la provvidenza è al comando, o se la serie dei destini ci trascina legati, o se hanno il sopravvento eventi improvvisi e subitanei: ora ritorno a quel punto, (e cioè) ad ammonirti ed esortarti a non permettere che lo slancio del tuo animo si indebolisca e si raffreddi.
Controllalo e rinforzalo, affinché diventi
un atteggiamento dell’animo quello che è uno slancio.

[7]
Iam ab initio, si te bene novi,
circumspicies quid haec epistula
munusculi attulerit:
excute illam, et invenies.
Non est quod mireris animum meum: adhuc de alieno liberalis sum.
Quare autem alienum dixi?
quidquid bene dictum est ab ullo meum
est.

[7]
Già fin dall’inizio, se ti conosco bene, cercherai con lo sguardo quale regalino abbia portato questa lettera:
leggila con attenzione e troverai.
Non è il caso che tu ammiri la mia generosità: ancora sono generoso dell’altrui. Ma perché ho detto altrui? Tutto ciò che è stato detto bene da qualcuno è mio.

Anche questo è stato detto da Epicuro:
“Se vivrai secondo natura, non sarai mai povero; se (vivrai) secondo le opinioni, non sarai mai ricco”.

Istuc quoque ab Epicuro dictum est: “Si ad naturam vives, numquam eris
pauper; si ad opiniones,
numquam eris dives”.

[8] Exiguum natura desiderat,
opinio immensum.

Congeratur in te quidquid multi locupletes possederant; ultra privatum pecuniae
modum fortuna te provehat, auro tegat,
purpura vestiat, eo deliciarum opumque
perducat ut terram marmoribus
abscondas; non tantum habere tibi liceat
sed calcare divitias; accedant statuae et
picturae et quidquid ars ulla luxuriae
elaboravit: maiora cupere ab his disces.

[8] La natura richiede poco, l’opinione una quantità smisurata.

Si ammucchi su di te tutto ciò che molti ricchi avevano posseduto; la sorte ti spinga oltre una quantità privata di denaro, ti ricopra d’oro, ti rivesta di porpora, ti conduca a tal punto di delizie e ricchezze che tu possa ricoprire la terra con marmi; non solo ti sia possibile avere, ma anche calpestare le ricchezze; si aggiungano statue e dipinti e tutto ciò che una qualche arte ha prodotto per il lusso: da queste cose imparerai a desiderare cose più grandi.

[9] Naturalia desideria finita sunt: ex falsa opinione nascentia ubi desinant non
habent; nullus enim terminus falso est.
Viā eunti aliquid extremum est:
error  immensus est.
Retrahe ergo te a vanis, et cum voles scire quod petes, utrum naturalem habeat an caecam cupiditatem, considera num possit alicubi consistere:
si longe progresso semper aliquid longius restat, scito id naturale non esse.

Vale.

[9] I desideri naturali sono limitati: quelli che nascono da una falsa opinione non hanno dove poter terminare; nessun limite infatti esiste per ciò che è falso.
Per chi va per una via esiste un qualche punto d’arrivo: l’andare errando è senza limiti.
Ritìrati dunque dalle cose vane, e quando vorrai sapere se ciò che cercherai ha un desiderio naturale o irrazionale, considera se per caso possa da qualche parte fermarsi: se, (a te) inoltrato per lungo tratto, resta sempre qualcosa di più lontano, sappi che questo non è naturale.
Stammi bene.

Powered by WordPress.com.

Up ↑