Non frastuono e neppure calma, proprio quel silenzio particolare delle grandi paure e dei grandi furori.
Tacito Paragrafo 40, Libro 1
Nulla Die Sine linea Discipline Arti Miti Simboli
Non frastuono e neppure calma, proprio quel silenzio particolare delle grandi paure e dei grandi furori.
Tacito Paragrafo 40, Libro 1
il nemico è spaventato dalle azioni improvvise, mentre non tiene in alcun conto quelle prevedibili
Publius Flavius Vegetius Renatus, Epitoma rei militaris, 3.26.15 (M.D. Reeve ed., p.118, l.7).
Subita conterrent hostes,usitata vilescunt
Facilis descensus Averno: noctes atque dies patet atri ianua Ditis; sed revocare gradum superasque evadere ad auras, hoc opus, hic labor
Virgilio Eneide, VI, 126-129
Scendere agli Inferi è facile: la porta di Dite è aperta notte e giorno; ma risalire i gradini e tornare a vedere il cielo qui sta il difficile, qui la vera fatica.
Divinità arciaca romana, ne fecero menzione molti autori con diverse interpretazioni
Angeronalia ab Angerona, cui sacrificium fit in curia Acculeia et cuius feriae publicae is dies
la festa degli Angeronalia prende il nome da Angerona, il cui sacrificio è compiuto nella curia Acculeia e di cui quel giorno è la festa ufficiale
Varrone, nel sesto libro del De lingua Latina
Marco Verrio Flacco nei “Fasti Prenestini”:
– Festa pubblica. Divalia. Festa della Dea Angerona, che prese nome dal disagio della fastidiosa angina poichè ella un tempo rivelò un rimedio per essa.
Hanno posto la statua di lei con la bocca imbavagliata sull’altare di Volupia, per mettere in guardia la gente a non proferire il nome segreto della città. –
Il nome deriverebbe ab angeronando, ossia dal rivolgersi del sole; Angerona sarebbe stata quindi, una divinità dell’anno nuovo.
La sua festa infatti cadeva appunto nel giorno del solstizio d’inverno.
Festo (Epitome, p. 17) e Macrobio (Saturn., I, 10, 9)
“Nel XII giorno (delle calende di gennaio) vi è la festa della diva Angerona, a cui i pontefici fanno un sacrificio nel sacello di Volupia.
Per altri il nome deriverebbe dalla malattia detta angina; la divinità guariva i colpiti da quel morbo, che a lei come supplici si rivolgevano.
La sua immagine era rappresentata con la bocca chiusa, e si venerava sull’ara di Volupia.
In un testo frammentario dei celebri Fasti Prenestini, compilati dal grammatico Verrio Flacco, ai tempi dell’imperatore Augusto,
Angerona…. ore obligato in ara Volupiae.
Quest’ara si trovava sul lato occidentale del colle Palatino, presso la porta del recinto romuleo che guardava verso il Tevere. Ivi, dinnanzi al simulacro della dea che teneva chiusa la bocca con l’indice della mano destra, nel giorno della sua festa, 21 dicembre, i pontefici immolavano una vittima.
Sia Plinio che Solino, in un più ampio discorso che aveva come tema centrale l’evocatio, scelgono il simulacrum della Dea come simbolo del valore che il silenzio possedeva nella cultura romana, strumento privilegiato per proteggere Roma contro i nemici obligato atque signato, fu interpretata da alcuni autori antichi come dea che intimava il silenzio.
Entrambi inseriscono l’exemplum della raffigurazione della dea trattando lo stesso argomento: la città, per non incorrere nel pericolo di evocatio, rito pubblico romano che consisteva nell’evocare la divinità protettrice della città che si voleva conquistare promettendole asilo a Roma, ci raccontano i due autori, possedeva un secondo nome, tenuto segreto e protetto da un religioso silenzio;
Non alienum videtur inserere hoc loco exemplum religionis antiquae ob hoc maxime silentium institutae. Namque diva Angerona, cui sacrificatur a. d. XII kal. Ian., ore obligato obsignatoque simulacrum habet,
«non mi sembra fuori luogo inserire a questo punto l’esempio di un antico rito religioso istituito proprio per esortare a tale silenzio: la dea Angerona infatti, la cui festa ricorre il 21 dicembre, ha una statua con la bocca chiusa e sigillata
O forse la dea simboleggia la difficoltà del passaggio del solstizio d’inverno, quando il sole, la coscienza, sembra sparire nelle tenebre, in senso iniziatico, il solstizio d’inverno equivale alla Piccola Morte, Morte iniziatica, quando il neofita perdeva le difese della mente esterna morendo al mondo, e prova un senso molto forte di angoscia e di smarrimento.
Potestne quicquam stultius esse quam quorundam sensus, hominum eorum dico qui prudentiam iactant? Operosius occupati sunt. Ut melius possint vivere, impendio vitae vitam instruunt. Cogitationes suas in longum ordinant; maxima porro vitae iactura dilatio est: illa primum quemque extrahit diem, illa eripit praesentia dum ulteriora promittit. Maximum vivendi impedimentum est exspectatio, quae pendet ex crastino, perdit hodiernum. Quod in manu fortunae positum est disponis, quod in tua, dimittis. Quo spectas? Quo te extendis? Omnia quae ventura sunt in incerto iacent: protinus vive. Vi può essere qualcosa di più stolto che il pensiero di alcuni, dico di quegli uomini che vantano la loro previdenza? si alienano dalla vita con zelo speciale. Per poter vivere meglio, organizzano la loro vita con un dispendio di vita. Stabiliscono degli obbiettivi a lunga scadenza. Ma il maggior spreco della vita consiste nel rimandarla questo rimandare ci porta via la quotidianità, ci ruba il presente, mentre promette il futuro. Massimo impedimento al vivere è l’attesa che dipende dal domani e sciupa l’oggi. Tu disponi ciò che è nella mano della fortuna e lasci perdere ciò che è in mano tua. Dove guardi? Dove ti protendi? Tutto ciò che ha da venire giace in un’incertezza: vivi ora.
Seneca De Brevitae Vitae
naturam expelles furca potrai scacciare la natura con la forca tamen usque recurret tuttavia sempre tornerà
Orazio (Epist. I, 10, 24)
“Per lungo tempo credetti, stoltamente,
che ci fossero statue di Vesta,ma poi appresi che sotto la curva cupola non ci sono affatto statue.
Un fuoco sempre vivo si cela in quel tempio e Vesta non ha nessuna effige, come non ne ha neppure il fuoco.”
Ovidio, “Fasti” VI , 295
esse diu stultus Vestae simulacra putavi, mox didici curvo nulla subesse tholo. ignis inexstinctus templo celatur in illo: effigiem nullam Vesta nec ignis habet
nec tu aliud Vestam quam vivam intellege flammam,
nataque de flamma corpora nulla vide
Concepisci Vesta come nient’altro che la fiamma vivente, e vedrai che nessun corpo nasce dalla fiamma.
”L’eroe si definisce come essere solitario, inesorabilmente votato allo scontro individuale, alla singolare tenzone, una verifica che affronta sotto un impulso irresistibile e che sublima, per così dire, nel momento supremo del duello contro un suo pari; duello in preda a una sorta di estatica ebrezza che estrania da sé il protagonista ….”
”Questa seconda anima è il prodotto del menos μένος l’ardore ispirato da un dio e si traduce in lyssa Λύσσα la furia guerriera.
Tale connotato è noto è noto a molte tra le culture antiche, soprattutto nella loro fase primitiva , a cominciare da quelle germanica, che impiega per definirlo, termini quali Freg o Wut.”
”La parola antico nordico da cui deriva il nome Odhinn, Odhr…corrisponde al tedesco Wut ”furore” e al gotico wods ”posseduto” come sostantivo designa sia l’ebrezza, l’eccitazione, il genio poetico(cfr l’anglosassone Woth canto) sia il movimento terribile del mare, del fuoco, del temporale come aggettivo significa violento furioso sia rapido. ”
Oltre quelli germanici, tutti i termini indoeuropei, che a questi concetti si riferiscono rimandano a una forza ispirata come quella della poesia o alludono all'invasamento profetico: il latino,furor, all'antico iralandese faith, nonchè naturalmente i greci mania μανία e manteia μαντεία. dono sovrumano non meno della possessione mantica, la mistica follia guerriera diviene dunque , in sè stessa la misura del favore celeste, così da spiegare '' come il combattimento di due eserciti possa essere sostituito da un duello giudiziale, nel quale gli dei indicano la parte che detiene il diritto confer Dumezil Gli dei dei Germani pp.71e 84 Confer Giovanni Brizzi il Guerriero l' oplita e il Legionario pag. 13
Πολλάκις ἐνθυμοῦ τὸ τάχος τῆς παραφορᾶς καὶ ὑπεξαγωγῆςτῶν ὄντων τε καὶ γινομένων. ἥ τε γὰρ οὐσία οἷον ποταμὸς ἐνδιηνεκεῖ ῥύσει καὶ αἱ ἐνέργειαι ἐν συνεχέσι μεταβολαῖς καὶ τὰ αἴτια ἐν μυρίαις τροπαῖς καὶ σχεδὸν οὐδὲν ἑστὼς καὶ τὸ πάρεγγυς˙ τὸ δὲ ἄπειρον τοῦ τε παρῳχηκότος καὶ μέλλοντος ἀχανές, ᾧ πάντα ἐναφανίζεται. πῶς οὖν οὐ μωρὸς ὁ ἐν τούτοις φυσώμενος ἢ σπώμενος ἢ σχετλιάζων ὡς ἔν τινι χρονίῳ καὶ ἐπὶ μακρὸν ἐνοχλήσαντι;
Μέμνησο τῆς συμπάσης οὐσίας, ἧς ὀλίγιστον μετέχεις, καὶ τοῦ σύμπαντος αἰῶνος, οὗ βραχὺ καὶ ἀκαριαῖόν σοι διάστημα ἀφώρισται, καὶ τῆς εἱμαρμένης, ἧς πόστον εἶ μέρος;
[V,23,1]
Pondera spesso la rapidità con la quale è spazzato via e sottratto alla vista l’esistente e il diveniente.
[V,23,2]
Giacché la sostanza è come un fiume in flusso ininterrotto, le attività sono in continua
trasformazione, le cause vi agiscono in miriadi di rivolgimenti e quasi nulla è stabile, né l’istante né il
passato prossimo, mentre l’infinito del passato e del futuro sono abissi in cui tutto scompare.
[V,23,3]
Come fa a non essere stupido chi in queste circostanze si boria, si ambascia, si cruccia come se qualcosa
potesse disturbarlo a lungo?
[V,24,1]
Ricordati della totalità della sostanza, della quale partecipi per pochissima parte; dell’eternità intera, di cui ti è stato demarcato un intervallo infinitesimamente breve; e del destino, di cui quanta parte
sei!
immagine opera di Raffele De Rosa
[II,2,1] Qualunque cosa mai io sia, è carne, pneuma, l’egemonico. [II,2,2] Tralascia i libri, non ambasciartene più: non ti è stato dato. Invece, come qualcuno ormai morente, giudicati pure superiore alla
tua carne: è sangue coagulato, ossa, un reticolo di nervi, di vene, di arterie. [II,2,3] Osserva anche cos’è
il tuo pneuma: aria in movimento, non sempre la stessa ma ogni momento espirata e poi di nuovo inspirata. [II,2,4] E terzo viene il tuo egemonico. Qui pensaci: sei vecchio; non permettergli più di essere
servo; non permettergli più di essere mosso come una marionetta da impulsi antisociali; non permettergli più di essere malcontento del destino presente o di rifiutare quello futuro
Ὅ τί ποτε τοῦτό εἰμι, σαρκία ἐστὶ καὶ πνευμάτιον καὶ τὸ ἡγεμονικόν. τῶν μὲν σαρκίων καταφρόνησον˙ λύθρος καὶ ὀστάρια καὶ κροκύφαντος, ἐκ νεύρων, φλεβίων, ἀρτηριῶν πλεγμάτιον. θέασαι δὲ καὶ τὸ πνεῦμα ὁποῖόν τί ἐστιν˙ ἄνεμος, οὐδὲ ἀεὶ τὸ αὐτό, ἀλλὰ πάσης ὥρας ἐξεμούμενον καὶ πάλιν ῥοφούμενον. τρίτον οὖν ἐστι τὸ ἡγεμονικόν. ἄφες τὰ βιβλία˙ μηκέτι σπῶ˙ οὐ δέδοται. ἀλλ ὡς ἤδη ἀποθνῄσκων ὧδε ἐπινοήθητι˙ γέρων εἶ˙ μηκέτι τοῦτο ἐάσῃς δουλεῦσαι, μηκέτι καθ ὁρμὴν ἀκοινώνητον νευροσπαστηθῆναι, μηκέτι τὸ εἱμαρμένον ἢ παρὸν δυσχερᾶναι ἢ μέλλον ὑπιδέσθαι.
[II,4,1] Ricorda da quanto tempo rimandi questi conti e quanto spesso, pur prendendo proroghe dagli
immortali, non le utilizzi. [II,4,2] Bisogna ormai che tu ti accorga una buona volta di quale cosmo sei
parte; a quale governante del cosmo sottostai quale emanazione; e che vi è per te un limite circoscritto
di tempo il quale, se non te ne servirai per darti aria pulita, disparirà e non vi sarà più un daccapo.
10
[II,5,1] Ogni ora preoccupati seriamente, da Romano e da maschio, di effettuare ciò che hai per le mani
con precisa e non artefatta solennità, con affettuosità, libertà e giustezza; e di provvederti agio da qualunque altra rappresentazione. [II,5,2] E te lo provvederai se esegui ciascuna azione come se fosse
l’estrema della vita, essendoti allontanato da ogni avventatezza, da emotivo distoglimento dalla ragione
che opera la diairesi, da ipocrisia, malinteso egoismo e dispiacere per gli avvenimenti compartiti dalla
sorte. [II,5,3] Vedi quante poche sono le cose padroneggiando le quali si può vivere una vita serena e da
dio; giacché gli immortali non richiederanno nulla di più a chi custodisce questi giudizi.
[II,6,1] Oltraggia, oltraggia te stesso, o animo! Di renderti onore non avrai più occasione. Non è, infatti,
breve la vita concessa a ciascuno di noi? [II,6,2] E questa vita per te è ormai quasi conclusa; per te che
non hai avuto rispetto di te stesso ma hai posto negli animi di altri la tua buona sorte.
[II,7,1] Gli accidenti esteriori ti distraggono? Procurati agio di apprendere qualcosa di buono in più e
cessa di girovagare di qua e di là. [II,7,2] Ma bisogna anche stare in guardia dall’altra condotta: giacché
vaneggiano in pratica anche coloro i quali, stanchi della vita, non hanno uno scopo sul quale indirizzare
una volta per tutte ogni impulso e rappresentazione.
[II,8,1] Difficilmente si vede qualcuno infelice perchè non riesce a soppesare ciò che succede nell’animo
di un altro. È invece necessario che non conoscano felicità gli esseri che non hanno la comprensione
delle mosse del proprio animo.
[II,9,1]
Bisogna sempre ricordare questo: quale sia la natura del cosmo; quale sia la mia natura e in quale
relazione questa stia con quella; quale parte di quale cosmo essa sia; che nessuno può impedire di fare e
di dire sempre ciò che è conseguente con la natura della quale sei parteΤούτων ἀεὶ μεμνῆσθαι, τίς ἡ τῶν ὅλων φύσις καὶ τίς ἡ ἐμὴ καὶ πῶς αὕτη πρὸς ἐκείνην ἔχουσα καὶ ὁποῖόν τι μέρος ὁποίου τοῦ ὅλου οὖσα καὶ ὅτι οὐδεὶς ὁ κωλύων τὰ ἀκόλουθα τῇ φύσει, ἧς μέρος εἶ, πράσσειν τε ἀεὶ καὶ λέγειν.