Nihil durare potest tempore perpetuo… poesia lieve tra le rovine

Poche righe, squisitamente poetiche , il graffito rinvenuto nel secolo scorso da Matteo della Corte, sito sulla parete della Bottega di Successus in via dell’Abbondanza a Pompei: “Nihil durare potest tempore perpetuo: cum bene sol nituit, redditur Oceano, decrescit Phoebe, quae modo plena fuit, ventorum (alcuni epigrafisti riportano Venerum) feritas saepe fit aura levis…“.

Nihil durare potest tempore perpetuo. Cum bene Sol nituit redditur Oceano; Decrescita Phoebe quae modo plena fuit. (Sic) Venerum feritas saepe fit aura levis.

Nihil durare potest tempore perpetuo.

Cum bene Sol nituit redditur Oceano;

Decrescita Phoebe quae modo plena fuit.

(Sic) Venerum feritas saepe fit aura levis.
[CIL IV 9123].

X.13.4 Pompei. 1913. Poema di graffiti trovato sulla sinistra della porta.

Secondo Della Corte, trovata sull’intonaco esterno a sinistra della porta, c’era un bel poema triste ma profetico.Questo è stato trovato il 25 febbraio 1913, scritto in rosso.
Nell’inverno del 1915, a seguito di piogge torrenziali prolungate, l’originale morì quando cadde il muro.

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Vedi Notizie degli Scavi di Antichità, 1927, p. 116, fig. 11.
Vedi Della Corte, M., 1965. Case ed Abitanti di Pompei. Napoli: Fausto Fiorentino. (p.335)
Secondo Garcia y Garcia, questo fu scoperto nel 1913, ma purtroppo presto perso.

Ha anche citato l’ultima parola latina come “l (e) vis”, e nella nota 28, ha affermato che l’interpretazione era stata fortemente contestata (con riferimenti).

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La sua traduzione del latino era:

“Niente può durare per sempre: il sole, quando il suo corso è completo, si nasconde dietro il mare; la luna, una volta piena, ora svanisce.
Pertanto, le ferite dell’amore guariranno e le fresche brezze soffieranno ancora una volta ”

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Garcia y Garcia, L., 2005. Alunni, insegnanti e scuole a Pompei. Roma: Bardi editore. (p.155)

Cooley ha una traduzione simile –

“Niente può durare per sempre:

Quando il Sole ha brillato brillantemente, ritorna sull’Oceano;

La luna cala, che recentemente era piena.

Anche così la ferocia di Venere diventa spesso un soffio di vento ”

Vedi Cooley, A. e MGL, 2004. Pompei: A Sourcebook. Londra: Routledge. (p.72)

 

ulteriore versione…

NIHIL DURARE POTEST TEMPORE PERPETUO
CUM BENE SOL NITUIT REDDITUR OCEANO
DECRESCIT PHOEBE QUAE MODO PLENA FUIT
VEN[TO]RUM FERITAS SAEPE FIT AURA L[E]VIS

Nulla può durare in eterno:
il sole dopo aver ben brillato si getta nell’Oceano,
decresce la luna che poco fa era piena,
la violenza dei venti spesso diventa brezza leggera

 

nota:
Phoebe deriva dal greco antico Φοίβη (Phoibe), latinizzato in Phoebe, da φοῖβος (phoibos) che significa “brillante”, “puro”, “luminoso”
E’ uno dei titanidi originata dall’unione di Urano e Gea, è sorella dell’Oceano Titano, Ceo, Kronos, Rea, Tè, Temis, Mnemosina e Teti,  era associata alla Luna.
Artemide era spesso chiamata Febe nel suo ruolo di dea della luna e come una coppia femminile del suo fratello gemello Apollo, che si chiamava Foebo (quello splendente).

Simbolismo metafisico della Roma Antica Urbs Aeterna

Ci piace pensare che i pignora fatalia siano ancora celati o custoditi da mani pietose, in attesa di un giorno tanto nuovo che avrà i colori di un giorno antichissimo
Sandro Consolato Urbs Aeterna misteri figure rinascite del paganesimo

Il lato nascosto, la forza metafisica del‘Urbs Aeterna, la potenza esoterica, celata nell’ombra della storia , grazie al saggio di Sandro Consolato possiamo apprezzare il valore della perpetua fonte di riflessione spirituale ed etica dell’antica Roma nello scorrere dei tempi dagli albori sino a frangenti più recenti.

 

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Il sapiente Väinämöinen entità fuori dal tempo…Вяйнямёйнeн

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Il sapiente Väinämöinen è un’entità fuori dal tempo, anziano sciamano. chiamato anche Vanemuine in estone e Vjajnjamëjnen (Вяйнямёйнeн) in russo, è un personaggio della mitologia ugro-finnica e uno dei protagonisti del poema Kalevala, significa letteralmente “Terra di Kaleva”, ossia la Finlandia: Kaleva è infatti il nome del mitico progenitore e patriarca della stirpe finnica, ricordato sia in questo testo che nella saga estone del Kalevipoeg. Il Kalevala è dunque l’epopea nazionale finlandese.

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I personaggi principali sono Väinämöinen, eroe saggio e scaldo divino nato dalla Vergine dell’aria Ilmatar, il fabbro Ilmarinen, che rappresenta l’eterna ingegnosità, e il guerriero seduttore Lemminkäinen, simbolicamente il lato guerresco e sensuale dell’uomo. In breve, il Kalevala racconta della lotta dei tre protagonisti contro Louhi, signora del paese di Pohjola (la Terra del Nord, rivale di Kalevala, la Terra del Sud), per il possesso del Sampo, magico mulino forgiato da Ilmarinen, portatore di benessere e prosperità.

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Nelle buie sere invernali, i convenuti si accomodavano su una panca ed ascoltavano le gesta dei vari eroi, creatori del mondo e della cultura di quel popolo. Il racconto, in metrica, veniva cantato dallo scaldo aiutato dal ritmo battuto su un tamburo col bordo di betulla e la pelle di renna. L’effetto era ipnotico ed atto a riprodurre uno stato di trance. Seppur in maniera non dichiarata, l’incontro portava in sé valenze sciamaniche e contenuti esoterici.

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Con l’aiuto  di Sampsa Pellervoinen, il Figlio del Campo,  genio del campo e guardiano della fecondità della terra, stanco di vedere l’isola senza nome spoglia e senza vegetazione, iniziò a chiedersi come poterla rendere prospera.piantò i semi di tutti gli alberi esistenti e creò i primi campi coltivati, disboscando una fitta foresta.

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Il saggio sciamano però lasciò in piedi un’alta betulla, perché sapeva che gli uccelli avevano bisogno di un riparo, e che tra le forze della civilizzazione e quelle della natura deve sempre esserci un equilibrio.

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L’aquila, il re degli uccelli, gli fu grata di aver pensato anche al popolo piumato, perciò, quando Väinämöinen finì in mare, rischiando di annegare in mezzo alle gelide acque del nord, si ricordò di lui e scese in suo aiuto, prendendolo sul proprio dorso e portandolo fino alla sua meta.

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Tolkien amava molto il Kalevala, poema epico finlandese, fu una delle numerose fonti d’ispirazione che lo aiutarono a dar forma alla Terra di Mezzo e ai suoi abitanti.

La corda dell’arco di Ötzi la più antica del mondo

Le corde per arco preistoriche sono tra i reperti più rari negli scavi archeologici. Il cordino contenuto nella faretra di Ötzi dovrebbe essere a livello mondiale la corda per arco più antica giunta fino a noi. “Uomo del Similaun”

Sebbene l’Uomo venuto dal ghiaccio stesse ancora lavorando al manufatto, portava con sé nella faretra un cordino ritorto di fibre animali (e non vegetali), elastico e molto resistente alle sollecitazioni, e pertanto estremamente adatto ad essere utilizzato come corda per l’arco.

Nell’ambito di un ampio progetto di ricerca del Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica (FNS) è stato possibile analizzare per la prima volta archi e frecce neolitici, focalizzandosi sui materiali, e confrontarli con l’equipaggiamento di Ötzi.
Per il Museo Archeologico dell’Alto Adige il risultato dell’indagine ha significato un ulteriore record: il cordino di Ötzi, fabbricato ad arte, e il suo equipaggiamento da caccia sono a livello mondiale in assoluto i più antichi reperti neolitici di questo tipo conservatisi fino a noi.

fonte: Comunicato diramato dal Museo Archeologico dell’Alto Adige

 

Lares,Penates, Manes, Genius loci…

 “Fino alla fine del paganesimo, il culto privato—diretto dal pater familias—mantenne la sua autonomia e la sua importanza a fianco del culto pubblico … A differenza del culto pubblico, che subì continue modifiche, il culto domestico, compiuto attorno al focolare, non pare aver subìto sensibili cambiamenti durante i dodici secoli della storia romana.
Si tratta, senza dubbio, di un sistema cultuale arcaico, in quanto esso è attestato presso altri popoli indoeuropei.
Proprio come nell’India aria, anche a Roma il fuoco domestico costituiva il centro del culto …
il culto si rivolgeva ai Penati e ai Lari, personificazioni mitico-rituali degli antenati, e al genius, una specie di ‘doppio’ che proteggeva l’individuo.

Mircea Eliade riguardo il culto privato nell’antica Roma
[Storia delle credenze e delle idee religiose v.II, p.120]:

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Lares da lar(es), “focolare”, derivato dall’etrusco lar, “padre” sono figure della religione romana che rappresentano gli spiriti protettori degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale. Sono posti in una nicchia della casa chiamato Larario, vengono rappresentati da statuette chiamate Sigillium (da signum, segno, immagine) e onorati con incensi ed una fiamma accesa.

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Insieme a Vesta, la dea del focolare, e ai Penati, gli dei della dispensa. L’origine del culto dei Lari non è però da ricercarsi presso il focolare della famiglia; per quanto incerta sia l’etimologia del loro nome, è abbastanza sicuro che la religione dei Lari ebbe sua prima sede in fundo villaeque in conspectu (Cicerone)

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I penati sono gli spiriti protettori di una famiglia e della sua casa onorate nel culto privato in modo esclusivo, gli antenati e spiriti protettori, deriva dal latino penas, ovvero “tutto quello di cui gli uomini si nutrono“, quindi in origine proteggevano il cibo custodito in casa, e il loro posto era il Penitus, ovvero il luogo della casa dove si custodisce il cibo (oggi la cucina o la dispensa).
In seguito divennero più genericamente i protettori della famiglia, sovrapponendosi quindi con la funzione dei Lari.

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Ogni famiglia aveva i propri Penati che venivano trasmessi in eredità insieme ai beni patrimoniali. Ai Penati, che risiedevano nel Larario insieme ai Lari, si occupava il capofamiglia (pater familias) che puliva regolarmente l’edicola e ad ogni pasto veniva offerto loro del cibo : il sale, che purifica e conserva il cibo, e del farro, il primo cereale coltivato dai romani.
 
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 i Mani ( Manes) erano le anime dei defunti, a volte in pace e benevolenti altre volte inquiete ed ostili,  talvolta venivano identificate con le divinità dell’oltretomba.

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sala dei Misteri (riti iniziatici) Particolare del grande affresco dionisiaco della Villa dei Misteri, Pompei (Napoli), I° sec. a.C. – I° sec. d.C.

Genius loci come sosteneva Servio

“nessun luogo è senza un genio”

nullus locus sine Genio

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La parola Genius deriva  dal latino gignere che significa “generare, creare”, era utilizzata per identificare il nume che costituiva una forza creatrice.
Al Genius venivano offerti fiori, piante odorose, incensi, profumi, vino ed altro.
Nell’antica Roma si riteneva che vi fosse una divinità minore protettrice di un luogo, di chi vi abitava o transitava.
Ogni luogo aveva un suo genius che poteva essere ostile o benevolo a seconda dell’atteggiamento dell’individuo verso il luogo.
Dissacrare un luogo, o appropriarsi  delle sue risorse in modo indiscriminato poteva inimicare Genius Loci, mentre  pregarlo, rispettarlo e fargli offerte poteva renderlo propizio.

“Genius loci” si potrebbe intendere come  “lo spirito, il nume tutelare”
di un determinato luogo.
Tale credenza è riconducibile  ad un approccio animistico per cui tutto è permeato da un’energia e da un’intelligenza, compresi i luoghi, o gli animali ma anche e lo stesso uomo
( in oriente un esempio esplicito si ritrova nel termine kami 神spiriti ancestrali e divinità  dello Shito 神道 )

Mithra archetipo del cacciatore ermetico

”Il mitraismo ha lasciato un importante messaggio.
I misteri di Mithra 
ci pongono in contatto con la presenza radicale e archetipica di forze terribili che, se ignorate e negate, immancabilmente ci travolgono; dobbiamo, invece, conoscere e apprendere la loro costituzione e divenire pronti e capaci di cavalcarle e domarle, fino al punto in cui la mano ferma sappia trarne la vita…”

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”I Misteri introducevano a quel sapere e a quell’arte.
Si trattava, 
beninteso, di un sapere arduo e di un’arte severa che aspiravano ad aprire una strada di speranza in un periodo di angoscia.
Tuttavia le religioni, anche dopo il loro tramonto, lasciano un insegnamento valido per ogni analogo tempo di smarrimento e di inquietudine.
Sta a noi 
ascoltarlo e adattarlo alla nuova forma dei problemi…”

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”La figura di Mithra si apre sullo sfondo dell’universo religioso, culturale, psicologico dei cacciatoriper i quali l’uccisione stabilisce nel tempo stesso la propria identità, istituisce la comunità ,garantisce la vita.

L’uccisione del toro o del Grande vivente rappresenta, in essa, l’inizio e insieme la conclusione.

Dal sangue che sgorga prende inizio una nuova umanità salva

et nos seruasti aeternali sanguine fuso

si leggeva nel mitreo di Santa Prisca a Roma.

Ma nessuno si salva se non sa percorrere il duro itinerario iniziatico, se non riesce ad avviare la trasformazione e il sacrificio di sé.

L’uccisione per eccellenza vede l’uomo al centro, vittima e sacrificatore, animale e cacciatore, morto e vivo.

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Le forze elementari che spingono alla caccia e ad aggredire la vittima in fuga sono le stesse che spingono a nutrirsi e a stringere il patto fra solidali che condividono il destino.
Sussiste un circolo inscindibile tra istinto di vita e istinto di

morte, tra creazione della morte e creazione della vita.

Il tema è l’incontro con la morte, e arcaicamente ogni morte è un’uccisione.
La morte, la morte data, è l’atto eminentemente sacro e creativo, che investe l’essere realissimo.
Su questo 
scenario si è sviluppata l’immensa problematica del sacrificio…
Il punto cruciale è rappresentato dal sacrificio, costituito da un atto di sangue, un atto di morte.
Al centro del mitraismo sta il tema formidabile del sacrificio del toro, cavalcato, sfiancato e infine iugulato senza tracotanza dal dio sereno e forte.

Nel sacrificio, la morte non si presenta volgare decadenza subìta, ma atto di creazione e di intensa padronanza della vita.”

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”Il culto mitriaco propone un itinerario di liberazione dal destino basato sulla capacità di sacrificio di sé.”
 
”I gradi dell’iniziazione mitriaca rappresenterebbero simbolicamente le tappe di un viaggio interiore che fornisce una chiave per affrontare e risolvere l’ordine dei pianeti e, mediante successive integrazioni, abilita al dominio delle potenze esterne.”
 
”I pianeti, grazie alla credenza in uno stretto rapporto analogico tra macrocosmo(l’universo) e microcosmo (l’uomo), non sono vissuti come realtà esclusivamente esterne e oggettive; decifrati in esperienze interne, ad essi corrispondono suoni, colori, emozioni, passioni, immagini.
 
Un discorso affine, in estrema sintesi, tornerà con l’astrologia esoterica  di
 
Bruno pensa che un severo e complesso esercizio di controllo della mente metta l’uomo in grado di controllare il mondo in cui vive.
In particolare egli si 
dedicò all’esercizio evocativo della memoria.

Le immagini che vivono nell’uomo  non sarebbero eventi puramente interiori bensì proiezioni del cosmo, e colui che le sa governare può anche governare il cosmo e rendersi libero. ”
 
”Colui che abbia raggiunto il controllo di sé per mezzo del sacrificio e della trasformazione acquista il potere di governare il destino e raggiunge la liberazione e la salvezza dal male.
 
Il punto cruciale è rappresentato dal sacrificio, costituito da un atto di sangue, un atto di morte.
Al centro del mitraismo sta il tema 
formidabile del sacrificio del toro, cavalcato, sfiancato e infine iugulato senza tracotanza dal dio sereno e forte.
Nel sacrificio, la morte non si presenta volgare decadenza subìta, ma atto di creazione e di intensa padronanza della vita.”
 
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”Il culto di Mithra si diffonde particolarmente in ambito militare
attecchisce tra coloro che praticano giochi ad 
alto rischio
(gladiatura, corse nei circhi ed altro)

Il culto di 
Mithra viene introdotto a Roma tramite i soldati di Pompeo che ne erano venuti in contatto durante le spedizioni in oriente nel I secolo a.C

 

Mithra  è una divinità minore del Pantheon persiano, i persiani con cui Roma si scontrò erano gli eredi d’una delle più importanti civiltà indoeuropee
 
Nel mitraismo non c’è ombra del sentimento della colpa.
 
L’eroe divino non è un dio che muore.
La salvezza che da lui promana verso gli uomini non dipende dalla sua morte, ma dal fatto che egli dà la morte.
Dalla vittima che lui sacrifica scaturisce la vita e la salute.
 
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Per i mitriaci, in breve, si instaura un circuito in cui l’uomo capace di compiere il gesto sacrificale si trasforma e libera, e reciprocamente è capace di compiere il gesto supremo solo chi si trasforma e libera.

In ultima analisi, si libera solo chi è disposto a essere sacrificato
(una similitudine fortemente presente nei culti arcaici sciamanici)

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Un’ideologia severa, da reggitori e da soldati: il supremo atto di dare la morte – atto per eccellenza sacro – presuppone un’ascesi rigorosa per raggiungere la riappropriazione e la reintegrazione di sé.Le doti di equilibrio, dominio di sé,coraggio, attenzione non disincarnata e lunare per il mondo della laboriosa prassi,erano e sono le doti dei reggitori, tipiche di coloro che sono consapevoli che l’autentica arte del governo comporta un combattimento tra bene e male.

La civiltà morale di Roma pagana va disciolta dalle sovrapposizioni cristiane che l’hanno inquadrata in una prospettiva rovesciata rispetto a quella stoica.
Il dominio di sé e l’attitudine alla sobrietà  non ha niente a che vedere con il sentimento della colpa del vivere e con la mortificazione, al contrario essi celebrano un gusto pieno della libertà nel mondo per il mondo e certo non dal mondo.
Il Marco Aurelio che elogia la temperanza non è un moralista e un intimista, è un uomo di stato( vir agendi)

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”La temperantia è la severità, la sobrietà, l’operosità efficace e equilibrata di colui che tempera.
La temperanza si riferisce al lavorìo del tempo; essa è l’arte del tempo, la sua capacità di cuocere, rifondere, ridistribuire, preparare nel suo vaso.”

Il tempo si basa sul ritmo e sull’ordine.
E’ temperante colui che ha il sentimento del tempo.
Nessuna lentezza, nessuna fretta, nessuna eccitazione; piuttosto l’azione pacata e ferma che scaturisce dal dominio degli impulsi interni e degli impulsi esterni, dall’educazione a non cedere alle emozioni e alle passioni.

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”E non deve nemmeno riferirsi a un tempo estraneo e oggettivo, al giro degli astri di fronte al quale si sta passivi e che si subisce; il tempo deve essere governato e riavviato con creatività e originalità.”

 
 
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Confer
Maria Pia Rosati  e Giuseppe Lampis«átopon» rivista di Psicoantropologia
simbolica e Tradizioni religiose.

 
Storia di un Culto
 
Le prime notizie circa il Dio Mithra pervengono dall’arcaica tradizione dei Veda indù e precisamente dal più antico, il Rig-veda, risalente ad un epoca di diverse migliaia di anni fa più remota dalla nascita dell’età volgare, che inquadrano la divinità in questione come reggente di un mondo perfetto delle origini ormai dimenticato, protettore dell’Ordine Universale insieme al dio Varuna.
 

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Ritroviamo Mithra, poi, in un’altra tradizione di origine indoeuropea, precisamente in quella iranica, ove, oltre che nell’antico Iran, anche in zone come la Cappadocia, Commagene, del Ponto e le terra dei Mitanni-hurriti, assume la valenza del Numen Tutelare del Patto, del Giuramento: tale caratteristica, non solo valse l’acquisizione di un crisma prettamente guerriero, ma anche, nell’antica Persia, permise che il suo culto diventasse la base del sistema feudale dell’impero.

Il contatto con il mondo occidentale e quindi con la Romanità avvenne, con l’espandersi della stessa, ad opera dei legionari, anche se Plutarco nella “Vita di Pompeo” narra di “strani riti” celebrati dai pirati della Licia; il culto entrerà ufficialmente a Roma, poi, solo nel 66 d.C., portatovi da Tiridate, re dell’Armenia, in visita a Nerone.

Il contatto con il mondo greco-romano, con le sue istituzioni misteriche
(molte sono le similitudini con i Misteri di Eleusi) e con la filosofia neoplatonica – come dimostrano varie opere di Porfirio -forgiarono una vera e propria via iniziatica ermetica, riservata a pochi eletti, sempre al riparo nei suoi mitrei, nelle sue grotte sotterranee riservate al culto, che simbolicamente possiamo associare al mito platonico della caverna
Mithra nasce alchemicamente dalla pietra, come la vera Luce cova e si manifesta nell’oscurità della notte.
Solo una tarda volgarizzazione potè assimilargli il ruolo di Soter, Salvatore, spesso confuso erroneamente col Cristo, e una statalizzazione , voluta da Diocleziano, Galerio e Licino lo proclamò “Deo Soli Invicto Mithrae fautori imperii sui”, assimilando il culto a quello ufficiale ed imperiale di Helios, introdotto a Roma, da Emesa, da Aureliano.
 
 

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Il mito e la tradizione fanno ricordare Mithra per due momenti salienti del suo decorso esoterico, cioè per la sua nascita dalla roccia e per l’uccisione del toro sacrificale, che non assume il solo valore rinnovatore del cosmo, ma possiede una ben più alta e precisa valenza spirituale.

Tutto si inquadra in una visione del mondo prettamente solare, concepita tradizionalmente, militando, l’iniziato o il neofita, per lo schieramento avversario irriducibile delle Tenebre, di Arimanne, di Tifone-Seth, di Vediovis, ma anche di tutta la spiritualità lunare delle madri come Iside, Demetra e Astarte, quindi per lo schieramento di Eracle, del Marte romano, di Horus…naturalmente di Mithra.
Poco o nulla si potrà comprendere di tale culto misterico se non si farà propria tale prospettiva polare, tale atteggiamento guerriero, di superamento magico, quindi di superamento attivo.

 
confer Luca Valentini
Redattore del sito web EreticaMente, cultore di filosofia antica, di dottrina ermetico-alchimica e di misteriosofia arcaica e mediterranea
 
Ulteriori punti di vista

Mani tese e gomiti difensivi nella arti marziali dell’antichità europea

Post, ubi confecti cursus et dona peregit, ‘nunc, si cui virtus animusque in pectore praesens, adsit et evinctis attollat bracchia palmis’: sic ait, et geminum pugnae proponit honorem, victori velatum auro vittisque iuvencum, allittensem atque insignem galeam solacia victo Poi, quando furon finite le corse consegnò i doni,Ora, se a qualcuno in petto (c’è) valore e coraggio forte, si presenti ed alzi le braccia con le palme legate: così disse, e propone doppio premio per la gara, al vincitore un giovenco velato d’oro e di bende,una spada ed uno splendido elmo, come consolazioni per il vinto

Virgilio, opera Eneide parte Libro V

 

Nelle raffigurazioni si possono notare le posizioni di guardia e di offesa con slancio di mani aperte e gomiti in fase difensiva, forse offensiva.

Gli artisti erano abbastanza precisi nelle loro raffigurazioni e mostrano una solida comprensione della meccanica del corpo. Un braccio di attacco esteso semi-disteso, braccio libero sollevato per un altro attacco / blocco. La gamba posteriore in atto di distensione per generare la catena cinetica dei colpi.

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Boxer a destra in difesa con una guardia di copertura che permette una difesa alta  quasi completa della testa e i gomiti puntati verso l’esterno hanno la possibilità di intercettare e danneggiare le mani dell’avversario.

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Si cui virtus animusque in pectore praesens, adsit et evinctis attollat bracchia palmis

 

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I dipinti della tomba forniscono le prove più estese per le immagini della boxe nell’arte etrusca: delle 198 tombe dipinte in tutta l’Etruria catalogate da S. Steingräber, a Chiusi e Tarquinia conservano scene di pugili e risalgono alla fine del sesto fino al secondo quarto del quinto secolo .
Nella maggior parte di questi casi, due pugili nudi, spesso muscolosi e pesanti, si trovano uno di fronte all’altro con i piedi per terra, a volte con un tallone sollevato; entrambe le braccia sono sollevate e i gomiti sono piegati .
In alcuni casi, uno o entrambi i piedi sono più lontani da terra, in modo che le figure sembrino “danzare” .

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Tomba del Poggio al Moro. Chiusi, 475–450.

Situla, Bologna Arnoaldi Tomb 96. (Per gentile concessione del Museo Civico Archeologico, Bologna.)
Bologna Arnoaldi Tomb 96. (Museo Civico Archeologico, Bologna.)

 

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Il Pugilatore a riposo

 

 

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La Cista Ficoroni è un cofanetto portagioielli, di rame e impropriamente detto in bronzo, decorato di forma cilindrica, finemente cesellato e sormontato da un coperchio ornato da tre sculture, per un’altezza di 77 centimetri. È il migliore reperto conosciuto, per dimensioni, qualità, ricchezza decorativa e stato di conservazione, di cista etrusco-italica.

 

Rappresenta un episodio delle iniziative dei Argonauti .

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I Dioscuri  Polluce  lega Amycus ad un albero mentre suo fratello, Castor,(forse) si allena su un sacco da boxe.
Nell’antica Grecia, il sacco da boxe era conosciuto come il Korykos.

 

αὐγῇ καθαρᾷ visione di Luce Pura  Πλάτων, Platone

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διὰ τὸ μὴ ἱκανῶς διαισθάνεσθαι. δικαιοσύνης μὲν οὖν καὶ σωφροσύνης καὶ ὅσα ἄλλα τίμια ψυχαῖς οὐκ ἔνεστι φέγγος οὐδὲν ἐν τοῖς τῇδε ὁμοιώμασιν, ἀλλὰ δι ‘ἀμυδρῶν ὀργάνων μόγις αὐτῶν καὶ ὀλίγοι ἐπὶ τὰς εἰκόνας ἰόντες θεῶνται τὸ τοῦ εἰκασθέντος γένος: κάλλος δὲ τότ’ ἦν ἰδεῖν λαμπρόν, ὅτε σὺν εὐδαίμονι χορῷ μακαρίαν ὄψιν τε καὶ θέαν, ἑπόμενοι μετὰ μὲν Διὸς ἡμεῖς, ἄλλοι δὲ μετ ‘ἄλλου θεῶν, εἶδόν τεν
 
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Ora nelle copie terrene di giustizia e temperanza e nelle altre idee che sono preziose per le anime non c’è luce, ma solo alcune, avvicinandosi alle immagini attraverso gli oscuri organi di senso, vedono in esse la natura di ciò che imitano, e questi pochi lo fanno con difficoltà. Ma in quel momento videro la bellezza splendere di luminosità, quando, con un coro beato  – seguiamo  Zeus, ed altri  qualche altro dio – videro l’apparizione e la visione benedette e furono iniziati a ciò che è giustamente
chiamato
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μακαριωτάτην, ἣν ὠργιάζομεν ὁλόκληροι μὲν αὐτοὶ ὄντες καὶ ἀπαθεῖς κακῶν ὅσα ἡμᾶς ἐν ὑστέρῳ χρόνῳ ὑπέμενεν, ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα φάσματα μυούμενοί τε καὶ ἐποπτεύοντες ἐν αὐγῇ καθαρᾷ, καθαροὶ ὄντες καὶ ἀσήμαντοι τούτου ὃ νῦν δὴ σῶμα περιφέροντες ὀνομάζομεν, ὀστρέου τρόπον δεδεσμευμένοι .
ταῦτα μὲν οὖν μνήμῃ κεχαρίσθω, δι ‘ἣν πόθῳ τῶν τότε νῦν μακρότερα εἴρηται: περὶ δὲ κάλλους, ὥσπεε
 
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il più benedetto dei misteri, che abbiamo celebrato in uno stato di perfezione, quando non avevamo esperienza dei mali che ci attendevano nel tempo a venire, essendo ammessi come iniziati alla vista di apparizioni perfette, semplici, calme e felici, che abbiamo visto nella luce pura, essendo noi stessi puri e non sepolti in ciò che portiamo con noi e chiamiamo il corpo, in cui siamo imprigionati come un’ostrica nel suo guscio. 
 
Fedro ΦαῖδροςΠλάτων, Platone
 
 

“Potremmo ipotizzare che l’epopteia fosse un approfondimento nella forma della luce dell’esperienza dell’unità di tutte le cose già assaporata nella telete/myesis un consolidamento noetico di questo stato di coscienza,deputato dal tumulto emozionale, che contrasegnava il primo livello di iniziazione, tutto fondato sulla trance dinamica sollecitata dalla musica dal canto, dalla danza,dal caos:
Tutti modi per destrutturare, dionisicamente, l’ego ordinario e consentire un viaggio ad interiora terrae che è condito sine qua non di un effettivo percorso di illuminazione mistica e sapienziale..”

 Confer
Angelo Tonelli 
in Attraverso Oltre
pag. 38 Eleusis

L’iniziazione ai misteri di Eleusi difatti culminava in una εποπτεία “epopteia”, in una visione mistica di beatitudine e purificazione, che in qualche modo può venir chiamata conoscenza. Tuttavia l’estasi misterica, in quanto si raggiunge attraverso un completo spogliarsi dalle condizioni dell’individuo, in quanto cioè in essa il soggetto conoscente non si distingue dall’oggetto conosciuto, si deve considerare come il presupposto della conoscenza, anziché conoscenza essa stessa.”

Giorgio Colli

note

La cerimonia dell’iniziazione  teleté (τελετή)  collegata significativamente di télos (τέλος) che significa ‘fine’, ‘compimento’, ‘realizzazione’, ma anche ‘pieno sviluppo’, ‘perfezione’, e dunque, di nuovo: rito, festa, mistero.(τελευτή), in oltre ‘fine’, ‘compimento’ ma anche ‘morte’: per questo dire ‘iniziazione’ era come dire ‘morte’, cioè passaggio (e ritorno) della psiche al mondo che le è proprio, cioè alla dimensione metafisica.

L’esperienza mistica culminante di tutto il processo iniziatico, il più alto grado dei misteri eleusini, era indicata col termine epoptéia (εποπτεία) composto da epí (επί), preposizione che significa: ‘su’, ‘sopra’, ‘in alto’, e dal verbo optéuo (οπτεύω) che significa ‘vedere’ l’epóptes (επόπτης) era sia l’officiante dei misteri che l’iniziato del grado più elevato. L’aggettivo epoptikós (εποπτικός) significava  ‘concernente i misteri’, ‘esoterico’, ‘contemplativo’ ed ‘epoptiche’ erano definite in Grecia le filosofie che assumevano come loro compito specifico l’introdurre a quella diretta conoscenza/esperienza metafisica che è lo scopo esplicito dei misteri.

Colui che veniva iniziato veniva chiamato mystes (μύστης) ed era introdotto alla sacra conoscenza dai mystagogòi (μυσταγογόι, termine composto con il verbo άγω che significa: conduco

Confer

Attilio Quattrocchi ”Le parole del sacro nella tradizione misterica”

Accademia Platonica

Cheironomia χειρονομία Skiamachia σκιαμαχία nel Pugilato arcaico pigmachia πυμαχία pygmachía, pugilātus

 La skiamachia, σκιαμαχία era  un combattimento simulato o “con l’ombra”

allenarsi in combattimento, combattendo con un avversario fantastico
προπόνηση σε μαχητικούς αγώνες , η μάχη με φανταστικό αντίπαλο

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Guanti da pugilato dell’antica roma

 

 

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Un altro esercizio, una specie di schermaglia con le mani senza avversario, era chiamato cheironomia χειρονομία.
Ambedue i termini sono citati, per esempio, da Pausania (VI, 10, 3) a proposito della statua di Glaukos di Caristo.
Un attrezzo di largo uso per la preparazione dei pugili era il korykos, un sacco di cuoio appeso al soffitto e riempito di cereali, di farina o di sabbia, che veniva utilizzato anche dai pancraziasti, ma era più grande e più pesante di quello dei pugili (Filostrato, 57).

Dai un pugno al korykos. Dettaglio della cista Ficoroni, opera italiana realizzata a Roma da Novios Plautios. Fine del IV secolo a.C., copia di un'immagine greca del IV secolo. Roma, Villa Giulia. Pfuhl, Malerei, iii. 254.
Dai un pugno al korykos. Dettaglio della cista Ficoroni, opera italiana realizzata a Roma da Novios Plautios. Fine del IV secolo a.C., copia di un’immagine greca del IV secolo. Roma, Villa Giulia. Pfuhl, Malerei, iii. 254.

Il korykos è visibile nella Cista Ficoroni e in una raffigurazione caricaturale in un vaso a figure rosse dell’Ermitage (V a.C.). Durante l’allenamento i giovani indossavano dei paraorecchi di lana coperti da cuoio, chiamati amphotides o epotides, che erano legati con sottili strisce di pelle intorno alla testa e sotto il mento.

In un vaso a figure nere (VI secolo a.C.), ora al Metropolitan Museum di New York, vediamo due pugili che si allenano al suono del flauto

Pelike a figure nere del pittore Acheloos, 510 a. C. Due pugili si allenano al suono del flauto. Metropolitan Museum di New York.
Metropolitan Museum di New York Pelike a figure nere del pittore Acheloos, 510 a. C. Due pugili si allenano al suono del flauto.

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La posizione iniziale di guardia assunta dai pugili (probolé) li mostra con il braccio sinistro disteso in alto verso l’avversario, a proteggersi il viso, e il destro piegato all’indietro, spesso più in alto delle spalle, pronto a colpire, ben saldi sulla gamba destra arretrata (la sinistra è talora leggermente piegata).
Come mostra in modo eloquente la tazza a figure rosse del 490 a.C. al British Museum, in cui si vedono due coppie di pugili con l’arbitro in mezzo.
Importantissimo, durante il combattimento, era il gioco delle gambe.
Stazio, infatti, così scrive di Alcimedonte: «Con rapidi movimenti evita mille colpi mortali indirizzati alle tempie; poi, ricorrendo all’aiuto dei piedi, ma pur sempre padrone della sua arte, arretra rivolgendo il volto all’avversario e continuando a parare i colpi» (VI, 792-795).

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Era esclusa qualsiasi presa al corpo dell’avversario per trattenerlo, né si poteva afferrargli le mani (tuttavia Àmico, allo stremo, blocca la mano sinistra di Polluce). Piuttosto che al tronco i pugni erano diretti al volto (fronte, naso, mento, mascelle), dove si causavano danni maggiori. Di colpi sul corpo abbiamo cenni in alcuni scritti, ma non ci sono raffigurazioni artistiche, salvo la scena dipinta in un’anfora a figure nere nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, in cui un pugile colpisce l’avversario addirittura ai genitali. Poco frequenti erano i colpi alle orecchie: l’esempio più terribile è il pugno con cui Polluce uccide Àmico nel racconto di Apollonio. Si poteva colpire anche con la mano aperta e, per quanto ne sappiamo, non esistevano regole che vietassero di percuotere un avversario già a terra. Gli artisti raffigurarono più volte il diretto e il montante.

 

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Il combattimento non contemplava frazioni di gara o intervalli, ma durava finché uno dei due pugili crollava privo di sensi oppure per resa, dichiarata sollevando l’indice di una mano (apagoreuein).

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Nel racconto di Teocrito (XXII, 105-107):
«Colpito, / cadde riverso tra le erbe fiorenti; ma si rialzò in piedi e l’aspra battaglia si riaccese».
Nell’anfora a figure rosse del pittore Pythokles, conservata al Museo Archeologico Nazionale di Atene (V secolo a.C.), uno dei pugili – colpito da un diretto – si arrende mentre cade alzando il dito indice della mano destra.
Altri esempi, in cui i pugili che si arrendono sono già in ginocchio, ce li offrono due anfore a figure nere, una del “pittore di Michigan” ai Musei Vaticani (VI secolo a.C.) e una al British Museum.

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Poiché non c’erano limiti di tempo, Melankomas della Caria, afferma Dione Crisostomo (Orazione XXIX), rimase sulla difensiva per due giorni interi, sfiancando l’avversario e vincendo il pugilato nel 49 d.C. Se i pugili erano d’accordo, l’arbitro poteva interrompere il combattimento affinché riprendessero le forze. Àmico e Polluce, sfiniti, si concedono una pausa (Apollonio, II, 85-90, e Flacco, IV, 279-283), come fanno Alcidamante e Capaneo (Stazio, VI, 796-801). Quando un incontro durava troppo a lungo, i giudici avevano facoltà di ordinare ai combattenti di scambiarsi colpi alternativamente senza difendersi (klimax). Si sorteggiava chi dovesse cominciare.

Il Pugilatore a riposo

Il Pugilatore a riposo

Virgilio, Eneide: Libro 06 – RITI PER GLI DEI DEGLI INFERI
quaeritur huic alius; nec quisquam ex agmine tanto audet adire virum manibusque inducere caestus Si cerca un altro per costui; e nessuno tra tanta folla osa affrontare l’uomo portare i cesti alle mani

Post, ubi confecti cursus et dona peregit, ‘nunc, si cui virtus animusque in pectore praesens, adsit et evinctis attollat bracchia palmis’: sic ait, et geminum pugnae proponit honorem, victori velatum auro vittisque iuvencum, allittensem atque insignem galeam solacia victo

 

 

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Poi, quando furon finite le corse consegnò i doni,Ora, se a qualcuno in petto (c’è) valore e coraggio forte, si presenti ed alzi le braccia con le palme legate: così disse, e propone doppio premio per la gara, al vincitore un giovenco velato d’oro e di bende,una spada ed uno splendido elmo, come consolazioni per il vinto

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Virgilio, opera Eneide parte Libro V

Per la pratica della disciplina  ARS DIMICANDI

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