Φόβος e la calma imperturbabile degli spartani

Spartan

Φόβος Phobos,  paura, era una ierofania, ἱερὸςφάνεια, che riceveva onori e rispetto a Sparta Σπάρτη.
Figlio di Ares, dio della guerra, e di Afrodite, dea della bellezza, era la ierofania  della paura e fratello di Deimos, il terrore causato dalla guerra.

Σπαρτιάται, Spartiátai  fondavano la propria metafisica sull’addestramento marziale e sulla preparazione alla guerra,  il segreto del loro successo risiedeva nel terrore folle che incutevano nei nemici nel vederli così calmi, determinati e sicuri, affrontare con serenità schiere numericamente molto più affollate.

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Dominare la paura per atterrire gli avversari, terrorizzare con l’ imperturbabilità le emotive schiere nemiche un arte raffinata e una profonda conoscenza psicologica  trasmessa di generazione in generazione.

La agoghé (ἀγωγή) era un rigoroso regime di educazione e allenamento basato su disciplina e obbedienza cui era sottoposto ogni cittadino spartano, il duro addestramento militare spartano, che durava tutta la vita, il servizio militare terminava introno ai 60 anni , mirava a fortificare il corpo e lo spirito dei soldati, che si sapevano nati per la guerra e che nella morte in battaglia vedevano l’occasione ambita per coronare di gloria sé e la propria famiglia.

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Phobos e Ares

Si dice che tempio maggiore di Φόβος si trovasse  a Sparta e gli Spartani pregavano nel tempio prima di scendere in battaglia. Plutarco riferisce, nella Vita di Alessandro, che anche Alessandro Magno, alla vigilia della battaglia di Gaugamela  Γαυγάμηλα contro il re persiano Dario, fece sacrifici a questo dio.

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Addestramento  per controllare la paura con tecniche di fine psicologia, se è la mente a provare agitazione, è i il corpo a manifestarla: fin da bambini, quindi, venivano abituati a controllare quei movimenti involontari (contrazioni delle palpebre, tremolii degli arti, deflusso circolatorio) che sono spia e fomento al terrore.

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Era uno spettacolo grandioso e insieme terrificante vederli avanzare al passo cadenzato dai flauti senza aprire la minima frattura nello schieramento o provare turbamento nel animo, calmi ed allegri, guidati al pericolo dalla musica. Perché non si può pensare che paura o furore smodato s’impossessassero di uomini così composti; ma certo un fermo proposito, sorretto da fiducia e coraggio, come se Dio li accompagnasse. […] Vinto e sbaragliato il nemico, l’inseguivano quel tanto che bastasse a consolidare con la sua fuga la vittoria, quindi rientravano immediatamente nell’accampamento, perché pensavano fosse un’azione ignobile e indegna degli Elleni tagliare a pezzi e trucidare chi rinunziava alla vittoria e aveva abbandonato la lotta. Il loro metodo era non solo onorevole e magnanimo, ma anche vantaggioso: gli avversari, quando sapevano che gli Spartani uccidevano chi opponeva loro resistenza e risparmiavano chi cedeva, stimavano più conveniente fuggire che resistere.
Trad. C. Carena, in Vite parallele, Einaudi, Torino 1958.

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