“colui che si trova o si nasconde tra le montagne”
riguardo agli yamabushi 山臥 si narra che fossero gruppi o individui dediti alla ricerca e alla pratica ascetica (askesis esercizio addestramento ) eremiti, sciamani delle montagne, seguaci della la via dello Shugendō 修験道 una commistione di credenze, filosofie, dottrine e sistemi rituali tratti da pratiche popolari-religiose locali, il culto della montagna pre-buddhista, di origine sciamanica , elementi scintoisti , Taoisti e di Buddismo esoterico mikkyo 密教 (in prevalenza setta Shingon)
La pratica includeva ricerca di poteri spirituali, mistici o soprannaturali ottenuti mediante l’ascetismo, i monaci studiavano non solo la natura e testi e immagini religiosi o spirituali, ma anche una varietà di arti marziali
Gli yamabushi monaci guerrieri, erano abili nell’uso di molteplici armi, combattevano con arco e freccia, o con spada e pugnale, soprattutto con il naginata.
La montagna (yama 山) in Giappone è una dimensione spaziale unitaria, contrapposta al villaggio e la campagna coltivata che lo circonda (definito collettivamente sato 里), la montagna è il regno di ciò che non è umano, del selvatico e del caos.
La montagna è il regno degli spiriti dei morti, dei mostri e degli dei. E’ una dimensione spaziale di silenzio e solitudine, e solenne, che ispira timore. La montagna in qualità di simbolo di immutabilità dello spazio e di eternità nel tempo, è vissuta come una dimensione che può svelare un’esperienza di assoluto.
La non-umanità della montagna è resa positiva dall’esperienza del divino: è il punto di congiunzione fra cielo e terra, fra divino e umano, il luogo dove si può passare da uno spazio cosmico all’altro. Alla base di famose montagne sacre, come il Monte Akagi, Nantai e Miwa, sono stati trovati reperti archeologici di carattere religioso. Si tratta di oggetti rituali quali specchi e gioielli magatama 勾玉, usati dalle sciamane come strumenti per indurre la possessione del dio. (Nota: si tratta di oggetti usati nello sciamanesimo legato allo shintoismo e consistente nel rito del kamigakari 神繋り, la possessione divina.
Salire la montagna è, dal punto di vista religioso, un’ascesi, un percorso nello spazio cui corrisponde una trasformazione interiore dell’individuo. Voler raggiungere ciò che è nascosto nei recessi della sommità esige una scelta che pochi compiono. Andare oltre il limite posto dal primo tempio (alla base della montagna) significa abbandonare la zona del coltivato, dell’uomo e dei rapporti sociali consueti. Nel recinto di molti templi alle falde della montagna si può scoprire, proprio nel punto in cui la collina diventa ripido pendio e la boscaglia si infittisce, un tracciato di sassi bianchi: è una simbolica ricostruzione del Sanzukawa 三途川, il fiume buddhista che divide il mondo dei vivi e l’altro mondo (in Giappone si ritiene si trovi nei pressi del Monte Osore).
Spesso questa linea simbolica è attraversata da un ponte ad arco di legno rosso, il ponte che porta al paradiso.
Nell’ascesi avviene una progressiva disumanizzazione, una dissoluzione lenta del sé attraverso le pratiche iniziatiche. Isolarsi dal mondo, rompere con la società del proprio tempo, pensare, come hanno fatto questi eremiti, che solo lontano dagli uomini si trovi la risposta ai problemi del dolore e del destino, è un’attitudine conosciuta in tante tradizioni religiose.
La parola anachorèsis significa una partenza, un abbandono: come si dice anche del morire.
Vestito di bianco, che è il colore della purezza e della morte (nella simbologia buddhista), lo yamabushi si incammina in solitudine verso la montagna.
“Itinerari nel sacro – L’esperienza religiosa giapponese” del Professor Massimo Raveri, Edizione Cafoscarina.
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